L`Ortobene - Gen Rosso, tempo di gioia - Tre giorni in città, musica e parole per testimoniare la fraternità
Updated April 6, 2025Nuoro - Parole di speranza, di pace e d’amore, di fraternità. Sono quelle risuonate da Nuoro per tre giorni indimenticabili con il Gen Rosso. La band nata nel 1966 a Loppiano su ispirazione di Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari, è tornata in città dopo la precedente esperienza del 2019 quando la scelse come tappa del tour Life. Tre concerti al teatro San Giuseppe organizzati in collaborazione con l’omonima parrocchia, uno dei quali al mattino ha coinvolto gli studenti, oltre a testimonianze e incontri personali. Prima però, perché ogni promessa è debito, la Messa al Sacro Cuore: nel 2019 a causa di un ritardo della nave svanì la possibilità di accogliere l’invito della parrocchia che con i suoi giovani avrebbe voluto condividere l’animazione della Messa. Giovedì il sogno dei ragazzi è diventato realtà, per la disponibilità del gruppo e con l’aiuto dei Focolari presenti in Diocesi. Nella celebrazione sono risuonati i canti liturgici del gruppo. Al termine l’incontro e la condivisione in Oratorio, una foto ricordo e un autografo.
In teatro due serate coinvolgenti per un pubblico realmente trasversale, dai più giovani fino ai più grandi appassionati dei grandi classici come Resta qui con noi, Ora è tempo di gioia, Oltre l’invisibile, Lavori in corso, Costellazioni…
Abbiamo incontrato gli artisti sabato mattina, ancora freschi dall’incontro con giovani che si sono scatenati insieme ai loro insegnanti.
Riascoltando le vostre canzoni è impossibile non pensare a quanto i temi che affrontate siano controcorrente in un periodo storico come quello che stiamo vivendo.
Michele. «Questo contrasto veramente oggi è molto forte, noi abbiamo sempre cantato certe canzoni ma in questo momento storico ascoltandole qualcuno potrebbe pensare “ma questi cosa vogliono?”. È molto forte il messaggio che portiamo avanti e noi dobbiamo continuare a fare questo, non dobbiamo mai stancarci di annunciare con le nostre canzoni e con i concerti che veramente la pace è possibile. Anche questo anno giubilare ci dice che la speranza non delude mai perché altrimenti potremmo chiudere baracca. Invece più che mai bisogna continuare ad urlare che la speranza non delude, che l’amore vince tutto e che la pace è possibile. Allora noi lo facciamo, continueremo a farlo fino a quando Dio ci darà la forza».
Avete avuto modo di lasciare questo messaggio anche ai ragazzi.
Adelson. «Questa mattina è stato un momento molto bello perché i ragazzi non solo si divertivano ma aderivano al messaggio. Una delle canzoni è Sei fatto per amare: urlavano perché sentivano forte questo questo messaggio. Anche cantando Making space for love, fai spazio all’amore, fai spazio all’altro, loro rispondevano, perché è anche una cosa che si deve dire, perché questa non è una cosa che viene da fuori ma ognuno di noi la sente dentro di sé. Se parli di certi argomenti, a qualsiasi persona, a qualsiasi religione, condizione sociale sociale o cultura, risuona dentro, perché questo è uno dei compiti che abbiamo: soffiare quella fiammella che abbiamo dentro e che fa bruciare. Il messaggio che portiamo non è da un altro mondo ma è una cosa che sentiamo tutti, e tramite la musica che è un linguaggio universale, parlare con i ragazzi è facile, bello, coinvolgente e c’è una risposta. E noi parliamo in modo semplice, senza fare la predica, ma condividendo tramite la musica e i ragazzi lo sentono».
Magari i giovani sono anche meglio di come li dipingiamo. Basta trovare un modo di coinvolgerli, forse la musica è il mezzo più semplice per raggiungerli.
Adelson. «È una cosa che ci crediamo, veramente, perché questo linguaggio arriva ovunque, veramente. Dovunque siamo stati, in qualsiasi parte del mondo, abbiamo visto che fa il suo effetto. Io credo che non sono i ragazzi a cambiare, cambia il linguaggio, si esprimono diversamente e ascoltano diversamente».
In questi ultimi anni, soprattutto dopo la pandemia, pensate sia più difficile incontrare le persone, dialogare, proporvi anche?
Emanuele. «Certamente il periodo della pandemia è stato difficile come per altri artisti, per un anno non abbiamo fatto un concerto. Ci siamo interrogati su come potevamo raggiungere le persone così abbiamo iniziato a condividere delle registrazioni casalinghe: non potevamo immaginare che ci sarebbe stata un’esplosione dei nostri canali social che fino ad allora avevamo utilizzato relativamente poco. In pochi giorni abbiamo raggiunto migliaia di persone. Abbiamo sperimentato non la chiusura ma un cambiamento. L’esperienza vissuta pochi minuti fa qui dentro può dimostrare che ragazzi e insegnanti ballano come se fossero tutti studenti o tutti uguali. Non abbiamo trovato quel tipo di chiusura. Sicuramente dobbiamo interpretare il cambiamento».
Vi state ponendo questa domanda anche come ricerca artistica, come linguaggio.
«Sì, intanto nel palco del Gen Rosso ci sono le canzoni di quasi tutta l’epoca, quantomeno dagli anni ‘70 fino al 2023 (data d’uscita dell’ultimo disco) e sembrano tutte fatte oggi. Quindi cerchiamo di mantenerle con nuovi arrangiamenti, nuove interpretazioni e sonorità. Non significa andare dietro alle mode, assolutamente, ma parlare il linguaggio del momento, interpretare i cambiamenti. E questo lo facciamo anche con la musica, anzi lo facciamo essenzialmente con la musica, perché questo è il nostro linguaggio».
Il fatto che voi non solo parliate di fraternità ma la viviate anche è la testimonianza più bella. Come la si può raccontare?
Adelson. «Io credo che sia molto importante non “romantizzare” questa parola, fraternità come tutto dolce, tutto bello. È una conquista anche, ogni tanto ci sono momenti in cui noi ci confrontiamo, magari non capiamo. Il modo di comunicare di ognuno è diverso e questo è importante saperlo. Una cosa che per me è scontata, per l’altro no. È un laboratorio continuo, una conquista continua, è una cosa che costruiamo, non è magico però è bello perché è conquistata con sangue, sudore e lacrime. Vogliamo valerci bene per davvero, cioè dobbiamo correggerci, c’è da ricostruire. Quello che mi fa bene è sentirmi costruttore, non passivo della fraternità. È una cosa che mi fa sentire più uomo, deve valere la pena».
Helanio. «Noi sentiamo che abbiamo lo spazio per ricominciare e per guardare le persone con gli occhi nuovi. L’importante è vedere la persona come un fratello, che sbaglia anche, però si può riconoscere sempre».
Quanto vi costa ma quanto vi dà questa vita da “nomadi”?
Michele. «Ci sono dei momenti in cui veramente tu sei così stanco che non hai voglia di salire sul palcoscenico e di affrontare le persone perché bisogna sempre dare. Però quello che poi tu ricevi dal pubblico è così forte, così impressionante, che ti passa subito quel pensiero, svanisce così. Ma ne vale la pena perché quello che il pubblico ti dà indietro non ha prezzo, è troppo bello. E allora, di nuovo, giorno dopo giorno è sempre così: Vai, dai, ajo!»
Adelson. «Dev’essere anche un piacere, logicamente. Perché è anche un cambiare cibo, cambiare letto, però c’è anche la bellezza di trovare persone nuove. C’è un prezzo da pagare fisico, però deve anche piacerti e a me piace da morire, io lo farei fino a 90 anni».
Pablo. «Per me è molto piacevole vivere così, viaggiando, spostandoci tanto, in tournée tutto il tempo. Io quando stiamo troppo tempo a casa, una settimana, due settimane, tre settimane senza viaggiare, penso stiamo perdendo tempo, stiamo perdendo l’incontrare con la gente. Dal mio punto di vista piuttosto lavorando dietro le quinte è una questione che è molto sfidante il dover cambiare sempre tante location, attrezzature, situazioni e avere la responsabilità di fare in modo che sul palco siano comodi tutti loro, che possano dare il massimo e che la gente possa ricevere anche questo massimo che loro danno e che siano comodi anche loro. Avere questa questa necessità di fare le cose più veloci fa arrivare alla fine della giornata molto stanchi e magari si passa da situazioni in cui si è stracomodi come qui ad altre in cui devi farti la doccia con l’acqua gelata. Ma pensiamo che portare questa musica compensa abbastanza le cose, sempre partendo dal punto di vista che per me non è un peso andare in tournée e stare tutto il tempo a viaggiare ma piuttosto è la cosa più bella di questo tipo di lavoro».
È tempo di anniversari, come avete vissuto e vivrete questi appuntamenti?
Emanuele. «Nel 2023 abbiamo celebrato gli 80 anni del Movimento del Focolare, l’anno scorso i 60 anni di Loppiano, la prima cittadella del Movimento, e alla fine dell’anno prossimo Gen Rosso compirà i suoi 60 anni. Ci stiamo preparando con tanta musica. Ma non possiamo anticipare nulla».
È doveroso un un omaggio anche alle persone del movimento che vivono qui e che hanno curato non solo l’accoglienza ma tutti i legami necessari alla vostra permanenza. È bello che ci siano persone che nel nascondimento danno una bella testimonianza.
Emanuele. «Questo è molto importante perché noi arriviamo, stiamo qualche giorno, poi andiamo via, quindi protagonista è la comunità locale, sono le persone del movimento che vivono qui, che danno la vita ogni giorno. Noi passiamo il testimone con una staffetta e poi sono loro che continuano: noi girando, viaggiando ma poi loro in loco continuano a spargere questa fraternità tutti i giorni. Sono loro i protagonisti e noi li ringraziamo perché ci sono nonostante tutto. Abbiamo approfondito di recente una meditazione sul mosaico che è fatto di tantissimi tasselli e basta che uno di questi sia rotto e il mosaico non è completo. Ogni tassello è fondamentale: noi siamo lì sul palco, ci sono i tecnici che lavorano per noi, ma poi c’è anche chi si prende cura del caffè, della colazione, ci dà un passaggio… O quanto lavoro prima per aver portato il Gen Rosso qui, e tutte e tutte queste persone sono i tasselli di un intero mosaico».
L’intervista di Franco Colomo
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